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Rif. DV07645
Documento 05/07/2002 DOCUMENTO
Fonte CNI
Tipo Documento DOCUMENTO
Numero
Data 05/07/2002
Riferimento
Note
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Titolo DOCUMENTO DI BASE PER LA MOZIONE CONGRESSUALE DEL 47ø CONGRESSO NAZIONALE DEGLI ORDINI DEGLI INGEGNERI - IMPERIA-SANREMO 11-13 SETTEMBRE 2002
Testo DOCUMENTO DI BASE PER LA MOZIONE CONGRESSUALE DEL 47. CONGRESSO NAZIONALE DEGLI ORDINI DEGLI INGEGNERI

Imperia - Sanremo 11-13 settembre 2002


Non si può parlare d'Europa e di politica europea senza pensare al paradosso che apre il sommario del libro bianco della Commissione sulla governance europea, punto di partenza per la nuova Convenzione chiamata a ridisegnare i rapporti e le competenze fra la Commissione, il Consiglio, il Parlamento centrale e i Parlamenti nazionali.
"Da un lato gli europei chiedono ai responsabili politici di risolvere i grandi problemi della nostra società, dall'altro, questi stessi cittadini nutrono sempre minor fiducia nelle istituzioni e nelle politiche che queste adottano e finiscono per disinteressarsene. Il problema noto anche ai Parlamenti e ai governi nazionali, è particolarmente acuto nel caso delle istituzioni dell'Unione Europea. Numerosi sono coloro che, di fronte ad un sistema complesso di cui non comprendono bene il funzionamento, nutrono sempre meno fiducia che esso possa realizzare le politiche da loro desiderate. L'Unione è spesso percepita come qualcosa di troppo lontano, e, allo stesso tempo, troppo invadente".

Se la tecnocrazia europea è arrivata a percepire e temere lo scollamento fra la società civile e le istituzioni, ciò significa che il processo ha assunto delle dimensioni così vaste da mettere in pericolo la governabilità stessa del sistema.
Il Presidente Giscard D'Estaing e i delegati nazionali dovranno lavorare su due fronti: proponendo, da un lato, un insieme di aggiustamenti che permettano all'U.E. di decidere e quindi di agire quando avrà da 25 a 30 membri, e definendo, dall'altro, gli obiettivi delle decisioni assunte in modo che i cittadini comprendano il più chiaramente possibile a cosa serve stare uniti e quali sono le responsabilità dei vari poteri in modo da identificare gli effetti delle decisioni che questi assumeranno nei diversi aspetti della loro vita, i figli, il lavoro, la salute, l'ambiente, la sicurezza...Ciò dovrebbe far sì che essi si riconoscano in un divenire europeo e democraticamente possano partecipare alla trasformazione della loro identità comune. E poiché i delegati della convenzione non avranno molto tempo davanti a loro (i lavori dovrebbero terminare nella seconda metà del prossimo anno), e saranno soli a riflettere, nonostante il "sostegno" d'alcuni esperti, è evidente che come per il passato, anche questa "identità comune" correrà seri rischi di essere sentita come un'imposizione dall'alto.

Ciò non significa che la società civile deve rinunciare a fare sentire la sua voce, anzi questo è il momento in cui chi si sente o non si è sentito abbastanza "soggetto sociale", deve lavorare per ottenere un suo riconoscimento costituzionale nella rinnovanda Unione Europea.

Le premesse per tentare esistono. Da un lato l'Unione europea, in cerca essa stessa di un'identità più forte, ha compreso che occorre ridisegnare nuove competenze e rapporti di governance fra la Commissione, il Parlamento e il Consiglio per attuare un'architettura nella quale si riconoscano anche i parlamenti nazionali, avviando una transizione più o meno marcata dal centralismo attuale ad un rafforzamento consistente dei principi di proporzionalità e di sussidiarietà. D'altro lato vi è il nuovo obiettivo strategico che il Consiglio dei Ministri ha fissato a Lisbona, nel marzo 2000, secondo cui entro il 2010, l'Unione dovrà "diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale".

Per la prima volta, nella vita dell'Europa comune, non sono, quindi, le questioni economiche e finanziarie a dominare, ma i metodi per valorizzare i saperi e le professionalità.

L'avvento dell'economia postindustriale, post-informationalism o "Knowledge age", ognuno può scegliere o coniare il termine che crede, ha infatti evidenziato una realtà che può riassumersi in un elementare concetto. Se pure il mondo non può vivere senza la crescita economica e le politiche che la supportano, gli imperativi economici non possono costituire in sé un "assoluto prevalente".
Il Manifesto sull'era della conoscenza di Alvin Toffler, (1994) che inneggia al risorto sogno americano dell'età del cyberspazio, difficilmente condivisibile in Europa per la totale liberalizzazione delle cosiddette autostrade della conoscenza e concepibile solo in una costituzione come quella americana dove la libertà dell'uomo e non la protezione della società costituisce il cardine del processo democratico, esprime questa verità in modo tanto ovvio quanto difficilmente confutabile.
L'evento centrale del XX. secolo è rappresentato dalla diminuzione drammatica del peso della materia. In tutti i campi dell'attività umana, la ricchezza, sotto forma di risorse fisiche, ha ampiamente perso di valore e di significato. Il potere della mente è in espansione ovunque e si fa strada sulla forza bruta delle cose. Nella prima fase dell'economia, la terra e il lavoro dei contadini costituivano il principale fattore di produzione. In una seconda fase, la terra resta importante mentre il lavoro diviene quello delle macchine e della grande industria. In una terza fase dell'economia, la risorsa principale diviene quella della conoscenza. L'era della conoscenza potrà produrre interamente i suoi effetti solo modificando le regole della società politica.

Da questo punto di vista, la transizione economica del "knowledge age" è un'opportunità soprattutto per gli Europei se sapranno coglierla. Di fatto la crescita economica si nutre, in modo più o meno rilevante, del valore creato da certi saperi o più precisamente del "sapere raro" che attiene a mercati mirati che diventano in tal modo molto redditizi, siano essi riferiti all'industria come all'imprenditoria media e piccola. Fino ad ora nell'industria, i saperi non hanno costituito la considerazione economica principale né degli erogatori di fondi né dei capitani d'impresa, salvo qualche eccezione. Ciò vale anche per il mondo delle professioni, specie in quelle tecniche, dove troppi parrebbero confermare l'asserzione di Niccolò Machiavelli, secondo cui nulla è più difficile che adoprarsi per un nuovo ordine delle cose, giacché il cambiamento ha per nemici quanti hanno prosperato nel vecchio ordine e per tiepidi difensori tutti quelli che non vedono ancora come prosperare nel nuovo.

All'alba del terzo millennio, in un periodo denso d'inquietudini e minacce, il modo migliore per arginare il disastro consiste nel mettere le intelligenze a diretta conoscenza dei nuovi sviluppi della scienza e della tecnologia, per renderle capace di utilizzarli. Come sostiene un'esperta, Rita Levi Montalcini, è caduta la barriera divisoria tra scienziato e tecnico. Lo scienziato è anche un tecnico e il tecnico è anche uno scienziato. Ci sono tecnici che si rivelano scienziati di primissimo ordine. L'incomunicabilità e, più in generale, l'indifferenza o addirittura il sospetto nei confronti della scienza deriva in parte da un'ancora scarsa diffusione del sapere scientifico. A questo punto è scontata, ma d'obbligo, la critica alla scuola, specie l'università, per le sue carenze in fatto di formazione scientifica giacché il sistema non si è ancora adeguato all'enorme rapidità di sviluppo delle conoscenze tecnologiche, soprattutto in Italia.

Nel mondo globalizzato, in buona sintesi, la conoscenza è diventata uno dei fattori primari della moderna società. E' cambiata la gerarchia della conoscenza fra i fattori chiave, nel senso che vince e prospera chi ha un maggiore patrimonio culturale e tecnologico. E' cambiato l'accesso alla conoscenza, così come lo scambio d'informazioni. Questo porta ad un più rapido ricambio produttivo, a veloci obsolescenze di beni e anche di paesi. Il ricambio di uomini sarà veloce, quello dei paesi già lo è. Retrocedere diventa quindi un'eventualità concreta che l'Europa deve paventare e sventare.

Ciò premesso come possono i professionisti e gli ingegneri in particolare mettere a frutto questo momento per meglio costruire il futuro della professione e la sua sopravvivenza ai livelli d'eccellenza auspicati?

Essi devono anzitutto individuare con chiarezza il valore aggiunto della loro attività e, laddove questo valore non sia riconosciuto, individuare i mezzi per conseguire l'obiettivo di un tale riconoscimento a livello non solo nazionale ma europeo e mondiale. Questa costruzione deve però essere fatta senza preconcetti, nel rispetto delle differenze culturali e sociali esistenti fra le varie regioni europee e continentali, pena l'arrocco di ognuno dietro i suoi pezzi e l'inevitabile fallimento dell'obiettivo.

Quali sono dunque i principali atout delle professioni intellettuali... Ricorriamo ad un testimone eccellente: il Parlamento europeo che nella sua risoluzione sugli onorari e le tariffe obbligatorie per talune professioni e sulla particolarità del ruolo e della posizione delle libere professioni nella società moderna (Documento B5-0247/2001), esprime fra gli altri, i concetti seguenti.
Considerando che "le libere professioni rappresentano uno dei pilastri del pluralismo e dell'indipendenza all'interno della società e assolvono ruoli di pubblico interesse", il Parlamento ritiene che esse siano "l'espressione di un ordinamento fondamentale democratico basato sul diritto e più specificatamente, rappresentino un elemento essenziale della società e delle comunità europee nelle loro varie forme".
Tenendo presenti gli elevati requisiti richiesti per l'esercizio delle libere professioni, e ravvisando la necessità di salvaguardare fra tali requisiti "quelli che distinguono tali professioni a beneficio dei cittadini europei nonché la necessità di instaurare tra i liberi professionisti e i loro clienti, un rapporto specifico basato sulla fiducia", il Parlamento riconosce "l'importanza data in alcuni Stati membri alle tariffe obbligatorie al fine di assicurare ai cittadini servizi d'alta qualità e di creare relazioni di fiducia tra i liberi professionisti e i loro clienti".
Il Parlamento ritiene anche che si debbano rispettare, applicando il principio della sussidiarietà, le diversità delle varie categorie professionali degli Stati membri e pur considerando che "secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia gli avvocati come pure altri liberi professionisti, sono imprese soggette alle regole di concorrenza", ritiene anche che "l'obiettivo di promuovere la concorrenza nelle professioni vada conciliato, in ciascun caso, con quello di mantenere norme puramente etiche specifiche per ciascuna professione".
Osserva infine che "le regole che sono necessarie, nel contesto specifico di ciascuna professione, per assicurare l'imparzialità, la competenza, l'integrità e la responsabilità dei membri della professione stessa, o per impedire conflitti d'interesse e forme di pubblicità ingannevole, e che non ostacolano peraltro la libera circolazione dei servizi, non sono considerate restrizioni del gioco della concorrenza ai sensi dell'articolo 81, paragrafo 1, del trattato".

Tali considerazioni del Parlamento motivate tra l'altro dalle riflessioni su alcune sentenze della Corte di Giustizia Europea in materia di tariffa degli avvocati e di libera prestazione di servizi, ben si adattano anche alla professione d'ingegnere.
Essa è, infatti, professione d'interesse pubblico poiché le attività professionali sono strettamente legate a fattori importanti per la collettività quali: la sicurezza delle persone e dei beni, la conservazione del territorio e delle risorse e la possibilità concreta di contribuire ad uno sviluppo sostenibile.
Gli ingegneri sono i soli a poter dominare alcuni fenomeni naturali ed a sapere utilizzare al meglio le risorse del pianeta per il bene comune. Essi sono vocazionalmente integrati al resto della società e dovrebbero concorrere, come politici o quantomeno "esperti" dei politici, alla definizione degli obiettivi sociali poiché conoscono molto bene i mezzi tecnici per conseguirli. Il loro lavoro, inoltre, s'inserisce in un quadro di regole dell'arte e di principi etici. Gli ingegneri, sono strictu sensu dei "responsabili".
In quanto "espressione di un ordinamento fondamentale democratico basato sul diritto", la professione di ingegnere è perciò un elemento di vitale importanza per le società e le comunità europee, e pur configurandosi fra le attività soggette a concorrenza, essa riveste un ruolo di tutela del mercato che deriva dal rapporto necessariamente fiduciario che deve instaurarsi con il cliente e dalle norme etiche che tutelano il corretto operare dei professionisti.
Si tratta inoltre di una professione di cerniera fra il binomio scienza-ricerca e il binomio tecnologia-produzione, che deve essere valorizzata proprio alla luce della "Europa dei saperi" intesa come garanzia e presupposto dell'"Europa del ben fare". L'ingegnere deve contemporaneamente sapere e saper fare il che presuppone che il suo sapere non sia un "sapere ad hoc" bensì un bagaglio di conoscenze solide e nel contempo dinamiche che devono accompagnarlo per tutto l'arco della sua vita lavorativa.

Da qui la necessità che l'Unione Europea allochi risorse mirate alla certificazione di qualità ed alla formazione permanente dei professionisti, avvalendosi dell'esperienza delle Associazioni di categoria d'ogni Paese, poiché un'armonizzazione mal si concilierebbe con le diversità occupazionali, culturali e socio-economiche presenti nonché con le tradizioni consolidate nei vari territori dell'Unione.
L'ingegnere in particolare, dovendo maneggiare quotidianamente l'innovazione, è il tramite ideale fra la cultura del fare e quella del sapere. Ha inoltre più dimestichezza con l'etica della responsabilità di quanta può avere il ricercatore puro generalmente meno incline a considerare l'impatto del modello sulle sue possibili applicazioni.
La forte presenza di ingegneri "costantemente preparati ed aggiornati" nella ricerca applicata ha quindi un duplice vantaggio: garantire in primo luogo, il valore del prodotto o del servizio, valore che è tale perché incorpora nuove conoscenze e idee che, per ricerca od intuizione, derivano dalla scienza e, in secondo luogo, applicare in modo corretto il "principio di prevenzione" che non significa, come certa politica intende, bloccare la ricerca o l'innovazione per non correre alcun pericolo - ivi compreso quello di progredire - bensì fare delle previsioni ragionevoli in termini di rischi. Poche professioni come quella dell'ingegnere hanno innata la cultura del rischio, magari non sufficientemente considerata oggi dalla pubblica opinione, ma ineludibile nell'immediato futuro causa le problematiche legate ad uno sfruttamento sconsiderato delle risorse ed alle scoperte più giovani e imprevedibili quali quelle legate ad esempio all'ingegneria genetica. Occorre quindi che la comunità riconosca chiaramente il valore aggiunto insito nel concetto di "Etica delle responsabilità" nelle applicazioni scientifiche se vuole realmente operare in un'ottica di sviluppo sostenibile.
E poiché un valore aggiunto deve essere adeguatamente remunerato, l'Unione deve mantenere, là dove già esistono, l'obbligatorietà della tariffa in modo che il professionista possa rendere delle prestazioni responsabili e di qualità senza essere costretto a svendersi per restare su un mercato privo delle più elementari regole etiche in nome della libera concorrenza.

A questo proposito è anche bene che sia stabilito il ruolo autonomo del professionista nel settore dei servizi giacché l'industria utilizza il sapere (che è dell'ingegnere) per potere fare. Ciò deve presumere un rapporto paritetico fra chi offre il servizio e chi se n'avvale, senza sudditanza né subappalti di sorta. Giova a riguardo ricordare come nella proposta di direttiva di coordinamento dei pubblici appalti di servizi, forniture e lavori, la limitazione del ricorso agli appalti integrati nonché il divieto di subappalto per le attività di progettazione, vigorosamente difesi dal Relatore al Parlamento On. le Stefano Zappalà, non casualmente ingegnere e ben conscio dei rischi connessi a queste pratiche, sono scomparsi nella proposta di compromesso recentemente licenziata dalla Commissione e dal Consiglio, evidentemente più condizionabili dal potentato industriale.

Per contrastare questa tendenza, e per realizzare quanto fin qui esposto, è bene costatare fino in fondo che la professione di ingegnere di fatto è priva d'influenza politica se non addirittura consultiva, a livello di istanze comunitarie. Alla luce delle nuove iniziative della Commissione per una maggior trasparenza ed informazione dei cittadini, la professione di ingegnere (come peraltro tutte le altre professioni intellettuali specie se non coperte da direttive settoriali) ha il dovere e il diritto di essere riconosciuta come forza politica e sociale.
A questo riguardo occorre considerare che gli ingegneri sono poco presenti nei vari Parlamenti nazionali ed ancor meno nel Parlamento Europeo (la rappresentanza italiana n'annovera solo uno!) giacché finora alla loro professione non è stato riconosciuto un particolare valore aggiunto. E' altrettanto vero che gli ingegneri sono, in maggioranza, dipendenti d'imprese pubbliche e private oppure liberi professionisti. Abbandonare la propria carriera o trascurare la propria attività professionale per "fare politica" o "sindacato", comporta il rischio di fallire su entrambi i piani. Tuttavia, il fatto che gli ingegneri, a titolo individuale, non si occupino molto della cosa pubblica, deve essere almeno compensato da una forte rappresentanza a livello di associazioni nazionali ed internazionali. La professione deve poter disporre soprattutto a livello europeo di un'associazione ombrello "riconosciuta" che operi strettamente con le istanze istituzionali e le associazioni europee relative ad altre professioni. Il mercato attuale esige sempre di più delle conoscenze multiprofessionali capaci di interagire tra loro per accrescere il valore del comune prodotto intellettuale.

Da questa associazione ombrello ci si deve attendere che:
- aiuti le Associazioni nazionali a promuovere e difendere un'elevata qualità dell'educazione e formazione ingegneristica, individuando i contenuti formativi minimi per assicurare l'eccellenza in Europa e nel mondo;
- nell'ambito dell'emananda normativa U.E sulla mobilità professionale, contribuisca ad indurre la Commissione e il Parlamento a porre limiti ragionati alla libera circolazione dei professionisti che operano con responsabilità propria, per rispettare l'eccellenza predetta.
- si adopri a promuovere e difendere una regolamentazione e tutela della professione in un quadro certo, meglio se di tipo "ordinistico", facendo sentire la sua voce attraverso una partecipazione strutturata ed efficace al Forum instaurato dalla Convenzione. In questa operazione non dovranno mai mancare il supporto e il contributo delle Associazioni nazionali.

Un'associazione ombrello, che rappresenti gli ingegneri a livello europeo, non può tuttavia molto senza il supporto e l'azione delle associazioni nazionali cui compete la creazione, sul territorio, delle condizioni ottimali per realizzare tutti gli obiettivi che si vogliono realizzare all'interno e all'esterno.

In questo senso, se ci rapportiamo alla situazione italiana, non possiamo non rilevare alcuni punti deboli che potrebbero obiettivamente frenare la corsa all'Europa della Conoscenza da parte dei nostri ingegneri.

In primo luogo, la riforma universitaria secondo il dictat di Bologna unita ad un decreto malfatto quale è il 328/01, costituisce un notevole elemento di confusione e d'appiattimento culturale per i professionisti, non solo ingegneri. In secondo luogo, lo scarso apporto in termini di qualificazione professionale fornito dall'esame di stato per ingegneri, rende difficilmente difendibile l'eccellenza dei nostri laureati che dal punto di vista della Commissione europea possono vantare solamente un solido titolo accademico, messo anch'esso ormai a rischio dalla riforma universitaria, di contro ad altre professioni (avvocati, medici, commercialisti...) che potevano e possono avvalersi una ben più solida abilitazione professionale nel confronto con gli omologhi di altri paesi.

La riforma universitaria, sia pur motivata da ragioni economiche e sociali comprensibilissime quali la troppo lunga permanenza degli studenti in università e il gran numero d'abbandoni, con un costo conseguentemente troppo alto dell'istruzione post secondaria, non pare rappresentare alcun circolo virtuoso.
Gli insegnamenti sono ancora troppo numerosi per cui non è così certo l'accorciamento dei tempi per il conseguimento dei diplomi ed il percorso in serie rappresenta una serie d'incognite di cui anche i docenti universitari paiono ora rendersi conto.
In un confronto europeo, pare proprio che i Ministri dell'Istruzione, prima a Parigi e poi in sessione assai più allargata a Bologna e Praga, abbiano voluto ricopiare il modello anglosassone che è uno dei peggiori d'Europa. Soprattutto per l'ingegneria, va notato un altro paradosso. Proprio nei paesi anglosassoni (dove in ogni caso nessun neolaureato è considerato aprioristicamente qualificato e deve fare una lunga strada per avere un titolo professionale riconosciuto) la formazione dell'ingegnere è stata oggetto di una riforma che nel 1997 ha alzato di un anno il livello minimo di studi accademici per un ingegnere (da 3 a 4 anni) situandolo direttamente a livello di Master.
In controtendenza, i paesi che hanno scelto il 3+2 rispetto al preesistente sistema ad una sola fase, hanno sacrificato con le lauree triennali le materie di base compromettendo così la formazione permanente dei futuri laureati che non avranno gli strumenti culturali per affrontarla. D'altra parte, come già la malinconica esperienza dei diplomati universitari avrebbe dovuto evidenziare, l'Università non può essere al traino delle aziende o comunque a servizio di una domanda esterna, ma deve sapere anticipare. E deve soprattutto produrre conoscenze e fornire strumenti e metodi per pensare. Di fatto una riconversione nel corso della vita lavorativa presuppone sufficiente elasticità di pensiero per adattarsi a realtà nuove che mal si coniuga con una specializzazione troppo spinta come sarà quella dei nuovi percorsi pena l'impossibilità della riconversione stessa. Il problema evidenziato in Gran Bretagna, ai tempi della riforma del 1997, fu proprio che i bachelors triennali sapevano orientativamente pensare in un solo settore d'attività, e non avevano le basi teoriche per affrontare campi nuovi. Restavano sempre dei tecnici "datati".
Per professionisti che lavoreranno con responsabilità propria in campi che incidono direttamente sulla sicurezza della collettività e dell'ambiente, deve valere perlomeno le obiezioni dei presidi delle facoltà di Legge che considerano incomprimibile (non da 5 a 3 anni bensì solo da 4 a 3 anni), la formazione accademica di un futuro giurista. Se il Ministro ha riconosciuto quest'esigenza per gli studi giuridici, dovrebbe a maggior ragione riconoscerla per le lauree specialistiche di ingegneria.
Non solo, ma nella misura in cui la nuova proposta di direttiva di mobilità riconosce agli architetti, in un considerando particolare, il ruolo di "conservatori della bellezza" giustificando quindi una piattaforma specifica per questa professione, analogo trattamento dovrebbe essere riservato ai "conservatori della sicurezza dei cittadini e del pianeta", essendo difficilmente difendibile ad esempio che il solo possesso di una "formazione regolamentata" della durata minima di tre anni, conferisca loro la capacità di operare responsabilmente come ingegnere "compiuto". Una formazione così ridotta ancorché definita "professionalizzante" dovrebbe al massimo consentire loro di lavorare nell'industria o nella professione, senza responsabilità particolari se non quella di apprendere il "mestiere" nel paese dell'Unione che prediligono.
Andrà quindi seguito accuratamente il percorso della Commissione De Maio, incaricata di valutare le prime conseguenze della riforma, facendo sentire con vigore la voce di chi facendo professione, ha modo di valutare quotidianamente l'utilità di quanto appreso sui banchi dell'Università. Tale considerazione non può non incidere sul discorso dell'accreditamento della formazione accademica, da non confondersi con la certificazione di qualità giacché si tratta di cose molto diverse malgrado i maldestri tentativi di confondere le problematiche da parte di certuni. Nella misura in cui il validatore non può validare se stesso, sono da contrastare tutti i tentativi di ridurre, in forma più o meno indiretta, l'accreditamento dei percorsi universitari ad atto interno delle università. Qui veramente è da seguire l'insegnamento dei paesi nordici dove l'utilità di un corso di laurea in termini di spendibilità del diploma, deve trovare riscontro presso il datore di lavoro sia esso industria, funzione pubblica o associazione professionale in nome e per conto del mercato dei servizi professionali.
L'ultimo punto da non sottovalutare è rappresentato dai cosiddetti "interessi offensivi e difensivi" che costituiscono la base di qualsiasi liberalizzazione economica ragionata fra gli Stati. A tutela dei suoi interessi difensivi, uno Stato frappone alcune barriere che gli consentano di fare fronte alla concorrenza esterna e quindi al calo della propria occupazione interna conseguente alla mancata produzione di beni e servizi interni. A tutela dei suoi interessi offensivi, il medesimo Stato richiede dall'altro l'abolizione di alcune barriere che non gli consentono di esportare i propri servizi e le proprie merci. Il negoziato verte proprio sulla consistenza di questi interessi e la mediazione fra le conquiste e rinunce rispettive. E' chiaro che più una barriera è alta e più si può mediare. In questo senso se la qualificazione del prestatore e i servizi da lui forniti sono garantiti ad un alto livello, è probabile che questi servizi possano non essere messi in concorrenza o trattati in modo più vantaggioso nell'ambito del negoziato.
Tanto per citare un esempio anche troppo strumentalizzato nel mondo degli ingegneri italiani, è piuttosto difficile richiedere disposizioni di legge che impediscono la concorrenza degli informatici pakistani se a livello interno i servizi informatici e i professionisti che li forniscono non presentano "de facto" servizi a valore aggiunto assai superiore e "de jure" qualificazioni consistentemente più alte.

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